Modelli strutturali per l'analisi del rischio di credito

Data inizio
1 ottobre 2005
Durata (mesi) 
12
Dipartimenti
Scienze Economiche
Responsabili (o referenti locali)
Gamba Andrea

Il progetto di ricerca si propone di sviluppare modelli strutturali per la valutazione del rischio di credito del debito aziendale tenendo in considerazione i vari aspetti della finanza d’azienda, e in particolare la flessibilità delle decisioni di investimento/disinvestimento e delle decisioni di finanziamento e di struttura del capitale aziendale. La ricerca comprende un’indagine empirica volta a verificare la capacità del modello di spiegare l’andamento dei differenziali fra i rendimenti a scadenza dei corporate bonds e i rendimenti a scadenza dei corrispondenti titoli obbligazionari privi di rischio (credit spread) osservati.
A partire dal lavoro di Merton, è stata data una grande attenzione all’analisi dei fattori determinanti il rischio di credito che grava sul debito aziendale e in particolare l’ampiezza della parte di credit spread dovuta al rischio di credito.
I contributi successivi, pur mantenendo lo spirito del modello di Merton, al fine di aggiungere realismo all’analisi, hanno incorporato vari aspetti caratteristici della finanza dell’azienda. Tra questi, gli effetti della tassazione aziendale come in Leland (1994), Leland and Toft (1996) e Mauer and Ott (2000), e della tassazione personale di azionisti e obbligazionisti della società, come in Kane et al. (1985), Goldstein et al. (2001), Dangl and Zechner (2003) e Hennessy and Whited (2005). Oppure gli effetti della stocasticità dei tassi di interesse risk-free, come in Longstaff and Schwartz (1995). Sono stati poi inclusi nel modello di valutazione le caratteristiche peculiari del contratto di debito: Fischer et al. (1989), Leland and Toft (1996), Goldstein et al. (2001), Collin-Dufresne and Goldstein (2001), Christensen et al. (2002), Dangl and Zechner (2003), Hennessy and Whited (2005), e Titman and Tsyplakov (2005) hanno rilassato le limitazioni sul contratto obbligazionario ammettendo che il debito possa essere ristrutturato. Essi, inoltre, hanno rese endogene le decisioni sulla struttura del capitale aziendale, in funzione dell’andamento del valore dell’attivo aziendale, dei costi di emissione delle obbligazioni, e dei costi di ristrutturazione e di fallimento.
Anche il meccanismo di fallimento è stato oggetto di indagine: autori quali Fischer et al. (1989), Leland (1994), Leland and Toft (1996), Fan and Sundaresan (2000), Goldstein et al. (2001), Christensen et al. (2002), o più recentemente, Dangl and Zechner (2003) e Titman and Tsyplakov (2005) hanno sviluppato modelli strutturali in cui l’insolvenza viene endogenamente decisa dagli azionisti con l’obiettivo di massimizzare il loro valore, anziché essere stabilita esogenamente in base al raggiungimento di un certo livello del valore aziendale, in relazione al livello di indebitamento.
L’ammontare dei costi di fallimento ha un effetto significativo sui credit spread. Anderson and Sundaresan (1996) dimostrano che una corretta considerazione di tali costi permette di spiegare buona parte dei credit spread osservati. Altri studi che incorporano tali costi nel modello strutturale sono Kane et al. (1985), Leland (1994), Leland and Toft (1996) e Mauer and Ott (2000). Infine, il servizio strategico del debito, introdotto da Anderson and Sundaresan (1996), Mella-Barral and Perraudin (1997) e Christensen et al. (2002), può spiegare parte dei credit spread osservati.
Lo sforzo di incorporare nel modello i vari aspetti che caratterizzano la dinamica del valore del debito aziendale è teso a fornire una sempre maggiore aderenza dei valori teorici ai dati empirici. Con questo scopo, diversi studi empirici hanno implementato alcuni dei modelli descritti sopra per vedere in quale misura i credit spread osservati possano essere da essi spiegati. Jones et al. (1984) e Ogden (1987) furono i primi a utilizzare il modello di Merton a fini positivi. In seguito, Lyden and Saraniti (2000) agiunse all’indagine il modello di Longstaff and Schwartz (1995).
Anderson and Sundaresan (2000), da parte loro, includono nell’indagine empirica il modello di Leland (1994), di Anderson and Sundaresan (1996), e di Mella-Barral and Perraudin (1997) in quanto incorporano la possibilità di insolvenza endogena. In anni più recenti, Eom et al. (2004) analizzano la capacità di cinque diversi modelli strutturali (Merton (1974), Geske (1977), Longstaff and Schwartz (1995), Leland and Toft (1996) e Collin-Dufresne and Goldstein (2001)) di descrivere i credit spread osservati empiricamente, mentre Huang and Huang (2002) paragonano gli ultimi tre modelli dello studio di Eom et al. (2004) con Leland (1994) e Mella-Barral and Perraudin (1997) sui dati empirici. Infine, Ericsson et al. (2005) nella loro analisi empirica, aggiunge a tali modelli il modello proposto da Fan and Sundaresan (2000).
I risultati di tali indagini empiriche, complessivamente, dimostrano che i modelli strutturali di Merton (1974) e di Geske (1977) condividono la tendenza in media a sottostimare i credit spread. Inoltre, l’indagine di Anderson and Sundaresan (2000) suggerisce che, nel complesso, rendere endogena al modello l’insolvenza porta a un miglioramento non significativo nella capacità del modello di descrivere i dati empirici. Inoltre, se si paragonano i risultati di Anderson and Sundaresan (1996) con quelli prodotti dal modello di Merton, si nota che il primo produce credit spread relativamente maggiori: gran parte di questa differenza è spiegata dal servizio strategico del debito a favore degli azionisti.
Infine, i credit spread osservati possono essere replicati anche assumendo bassi (cioè realistici) costi di fallimento e volatilità dell’asset. Eom et al. (2004) trovano che, rispetto a tali risultati, i modelli di Longstaff and Schwartz (1995), Collin-Dufresne and Goldstein (2001) producano spread maggiori (a parità di ogni altra condizione) sia del modello di Merton che di Geske. Tutto ciò a spese però dell’accuratezza, in quanto `the average spread prediction error is a rather poor summary of a model’s predictive power, as the dispersion of predicted spreads is quite large’ (da Eom et al. (2004, p. 535)). Essi trovano poi che tutti e cinque i modelli analizzati sottostimino gli spread per aziende con leverage basso e bassa rischio aziendale e sovrastimino quelli con elevati leverage e rischio aziendale. Tali conclusioni sono per altro in linea con quelle di Huang and Huang (2002) e Ericsson et al. (2005).
In conseguenza dei risultati precedenti, qui sopra riportati, si ritiene che uno sviluppo rilevante in questo filone della letteratura finanziaria possa essere rappresentato da un modello strutturale che tenga conto della flessibilità aziendale delle decisioni di investimento/disinvestimento. In particolare, rendendo endogene le decisioni sull’attivo aziendale, non più visto come un dato esogeno, ma endogenamente determinato in relazione anche alle decisioni di finanziamento, si ritiene che i modelli strutturali possano meglio descrivere i credit spread osservati, in base all’osservazione che la flessibilità mitiga il rischio aziendale e incrementa la redditività del capitale aziendale.

Enti finanziatori:

Finanziamento: assegnato e gestito dal Dipartimento

Partecipanti al progetto

Andrea Gamba

Collaboratori esterni

Mamen Aranda Leon
University of Navarra Finance Professor
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